martedì 3 agosto 2010

La Via del Ritorno

La via del ritorno conduce sino a casa. E’ differente rispetto all’andata: non il semplice percorso inverso che credi di conoscere così bene. Piuttosto, è una strada larga perché su di essa trasporti ciò che hai saputo trovare, vivere, ciò che ti hanno regalato. Per tale motivo ti costringe a segnare il passo, per fare memoria. Perché essa è come un fiume che trascina ciò che incontra e trattiene solamente il materiale pesante; tutto il resto, il futile, scorre e sparisce rendendo la via libera per un altro cammino.
La via del ritorno racconta un passato prossimo del quale senti ancora l’odore, riconosci i suoni. Non si è spento il sole sull’ultima sua immagine che già l’alba successiva riscalda i nuovi raggi. Una corsa contro il tempo, una clessidra che travasa. Sulla via del ritorno non vi è niente di nuovo, piuttosto ogni cosa si trasforma acquistando nuova forma e nuovi colori. E senti d’essere cambiato; e speri di trovarti migliore. Un’occasione per rientrare in sé stessi o un nuovo inizio per allontanarsi per sempre.
La via del ritorno è come un mosaico in cui ogni tessera contiene in sé l’essenza del disegno finale. Di ciascun frammento non puoi farne a meno perché quel minuscolo vuoto generato apparirebbe come voragine agli occhi dell’osservatore attento. E’ un’immagine senza contorni che assume forma e dimensione libera, in funzione della passione infusa, del coraggio dimostrato, del sudore stillato, della fatica consumata durante tutto il tragitto.
La via del ritorno è un viaggio in compagnia; ti concede il privilegio di sentirti gruppo se hai creduto nei compagni. Così da far dimenticare l’andata consumata in una timida e formale solitudine, vagamente diffidente. Un gioco di rapina ed estrema generosità in cui puoi prendere, cosciente di dover donare tutto te stesso. Solo adesso riconosci i volti affidando a ciascuno un nome, il ricordo preciso di una frase o un fatto. Di alcuni senti già la mancanza di altri percepisci la perenne assenza.
La via del ritorno si attraversa nel silenzio che parla al cuore e che racconta l’intero viaggio appena completato. Come un deserto apparentemente arido in cui sai di poter trovare oasi ed orientamento. E’ la distanza esatta tra passato e futuro. La mappa che hai saputo interpretare per la scoperta del tesoro o l’enigma irrisolto che ha ossessionato le notti. Il filo su cui l’equilibrista lascia scorrere i passi per accorciare la distanza tra sé ed il vuoto.
La via del ritorno è lunga e lenta e concede soste per assaporare il gusto della malinconia. Orizzonte sul futuro che conferma l’assenza di un solo arrivo. Pertanto essa stessa è ripartenza verso una meta nuova, un progetto, semplicemente una direzione; guida con la curiosità di sempre, quella che mette in cammino e che rende insofferente la sosta se non per cambiare valigia.
La via del ritorno, per chi cerca Dio, non è la conclusione del viaggio bensì una tappa d’avvicinamento.

sabato 22 maggio 2010

Chi comanda è il cuore

Chi comanda è il cuore..!
L’affermazione si arroga il ruolo di depositaria di verità assoluta, inconfutabile.
Il cuore.
Varie le correnti di pensiero: in tanti credono che la supremazia spetti al cervello, l’organo supremo da cui ogni azione importante si muove. Da cui nasce il pensiero che così concepito distingue l’uomo dal non-uomo. Capace di costruire idee e di tramandare la storia. Stendardo.
Menzogne! Illusioni o forse incomprensibili errori.
Chi comanda è il cuore!
Chi crede di poter sfidare quest’affermazione provi ad intrecciare la logica con i ricordi. Scoprirà un mondo in cui il cuore ha segnato il tempo misurando ogni istante con battiti precisi, autoritari.
La prima carezza di una madre, la sensazione di sentirsi stretti al petto. Il bacio notturno del padre rassicurato dal finto sonno dei figli; il primo innamoramento… tutti gli altri. Un progetto realizzato o un terribile fallimento.
L’intera esistenza è sempre filtrata da quell’organo cavo scambiato per muscolo. Che fa percepire la sua presenza invadente in gola, o nello stomaco costringendo a misurare, invano, la sua indistinguibile grandezza.
Il cuore.
Il coraggio lo ha nutrito costantemente e la passione lo ha tenuto in vita. I dolori hanno scavato solchi ed intrecciato cicatrici e la noia l’ha incancrenito. Ma nonostante tutto ci ha condotto sino a qui e non ci abbandonerà senza una ragione.
Lo sentiremo accanto quando tutto sarà distante da noi: in quell’attimo estremo indicherà la strada da percorrere per ascoltare nuovi battiti, differenti, infiniti. E sarà il suono più forte dell’universo. Rimbomberà sui timpani chiamandoci con voce divina. Segnerà un passaggio nascosto, come un filo di luce che si snoda tra la vegetazione più fitta. Un campanello inverso che annuncerà la nostra partenza attraverso l’assenza di suono.
Chi comanda è il cuore!
Perché ha detto al mondo che esistevamo già da prima che il mondo ci vedesse, quando un puntino lampeggiante annunciava il nostro nome per bocca di chi ci avrebbe amato per sempre.
Quando avrebbe voluto dividersi per regalare vita a chi stava perdendola.
Ha saputo tacere per non far prevalere la disperazione nelle tante occasione di angoscia; ha voluto ricominciare dopo le troppe sconfitte.
Chi comanda è il cuore!

domenica 9 maggio 2010

Mamma


Ho chiamato a piena voce il tuo nome, respirando il profumo che riconosco tuo da anni.
Può l’amore correre sul filo di uno sguardo e passare da un corpo all’altro senza trovare riposo ma solamente scambio..?! Questo sperimento con te, mamma; ogni volta che incrocio la direzione del tuo guardare avanti. Ed è per me un tuffo nel passato, all’infanzia felice, fatta di biscotti e racconti.
Il colore degli occhi non tradisce il logorio del tempo, anzi esalta una limpidezza dettata dal maturare degli anni. Come un vino buono tenuto a riposare che decanta nel fondo della botte tutto ciò che non aiuta ad apprezzarne le qualità.
Osservo le tue braccia robuste; l’intreccio dei muscoli contratti per il lavoro in cucina. La voce canticchiare un motivo sconosciuto, tuttavia familiare. L’armonia dei gesti; come fosse una danza e tu l’etoile magnifica..!
Ricordo da bambino che mi sembravi un angelo, perché la controluce diluiva la tua immagine creando un alone di calore e meraviglia. E sapevo che eri bella perché il mio sguardo poggiava sul tuo sorriso. Quello stesso che ancora oggi mi regala un attimo di intima felicità rassicurandomi …
Sfioro il dorso della tua mano ruvida; quante volte ho portato quella che prima era seta sulla mia guancia bagnata dalle lacrime. Adesso ne contemplo la storia, la fatica e sento gratitudine.
Il tempo accompagna le nostre vite ricordando ad entrambe di non voltarsi indietro; perché il passato urla per impaurire il presente. 

Insieme guardiamo avanti, sorretti dall’amore che vive in noi .. per sempre …!!

lunedì 26 aprile 2010

La solitudine non esiste

La solitudine non esiste! Sento intorno mille respiri e mille pensieri che s’intrecciano in gomitoli inestricabili: legano e catturano. Mille sguardi posano il velo della loro indifferente malinconia sulla mia pelle. Mille parole inutili pronunciate stancamente ma che riscaldano i pomeriggi bui. Così mi accorgo d’esser vivo, presente agli altri e soprattutto a me stesso. Così mi accorgo che la solitudine non esiste. Anche se fossi l’ultimo cuore che batte in un mondo isolato. Anche se fossi l’ultima goccia di un mare essiccato. Anche se fossi l’ultimo alito di vento in un’afa soffocante. Sarei io. E quindi presente a me; con quell’io che mi accompagna da sempre, che mai lascerà soli i giorni fintanto che la vita mi concederà un’alba e un tramonto, un sogno ed un risveglio, una sola morte ed una rinascita eterna. La solitudine non esiste. Me lo leggo negli occhi: nello sguardo curioso che scruta gli altri nell’intimo del quotidiano. Lo sento sui polpastrelli delle dita quando sfiorano una mano vicina anche se sconosciuta. Lo riconosco nel sonno di mia moglie quando riposa al mio fianco. La solitudine non esiste perché conosco Dio. Ed il suo amore mi circonda togliendo spazio alla noia, alla malinconia … alla solitudine!

venerdì 2 aprile 2010

Jesus

Quella sera fu l’ultima che trascorsi insieme ai miei amici.
Erano come fratelli; coloro a cui avrei affidato mia madre prima della dipartita. Li conoscevo uno ad uno e ne avevo cercato il cuore per farlo schiudere al calore della mia verità.
Raccontavo loro del Padre e della sua potenza. Tentavo di prepararli alla mia lontananza, a quando non saremmo più stati insieme.
E poi era giunto il tempo: i giorni avevano disegnato una traiettoria sino ad arrivare al momento del sacrificio, in croce.
Quella sera consumammo la cena con la stessa serenità di sempre, con allegria, sino a quando…
Sentii lo spirito del male attraversare le pareti della casa, roteare tra le teste dei miei fratelli in cerca della persona che avrebbe definitivamente scelto. Un alito gelido si spinse innanzi nel tentativo di sfiorarmi. Avevo già sentito quella tentazione; anche allora costretta a ritirarsi sconfitta. Così, vidi il male posarsi su Giuda… il mio Giuda.. Conosceva, come me, la sua debole volontà, la paura d’aver sbagliato tutto assecondando i miei progetti, la titubanza nella fede.
Satana seppe approfittare di un momento; quell’attimo in cui ciascuno si sente solo, abbandonato dal mondo. Quando le domande confondono la mente ed il cuore diventa insensibile nell’unico tentativo di difendersi.
Giuda non riuscì a sottrarsi dall’abbraccio maliardo, perfido, dell’eterno mio nemico. Il tentativo di resistere, dapprima risoluto, divenne sempre più flebile sino alla resa incondizionata.
Il male lo possedeva nell’ultima ora, dando inizio a ciò che era già stato scritto. Sapevo ciò che, da quel momento, sarebbe accaduto. Conoscevo la successione terribile degli eventi. Tutto necessario per liberare gli uomini dal peccato, per dar loro la possibilità di credere nell’amore di un Dio paterno, di un Dio che sacrifica quanto di più prezioso possiede.
Ero io, la preda, il sacrificio da immolare… io.
Nessuno può comprendere realmente ciò che sentivo. La condizione umana assunta era gradualmente divenuta esclusiva, totalizzante. Per un attimo, un insignificante, piccolissimo, irripetibile istante ho sperato che tutto si fermasse. Che come per Abramo si potesse rivedere il copione, modificandone l’epilogo. Che la morte dovesse ritornare sui propri passi senza aver raccolto frutto, con le mani inaridite e vuote per la mietitura mancata.
Quella notte, così buia. Nonostante fossi circondato dai mie amici mi sentivo assolutamente isolato. Distante da tutti: da coloro che mi bramavano per mortificare la mia vita, ma anche da coloro che mi amavano e che non seppero starmi vicino.
Le fronde degli ulivi gridavano un canto infausto ed il Getsemani si trasformava lentamente in un tribunale di sola condanna.
Il dolore cominciava a chiedere spazio tra la carne: irriverente conquistatore pretendeva il posto principale con l’obiettivo unico di offuscare la mente.
Vomitai al cielo un lamento “Padre allontana da me questo calice! ”(Mc 14, 36) “ ..Però non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22, 42).
Immediata la risposta. Un abbraccio caldo mi avvolse completamente sostenendo quell’eccesso di umanità che aveva preso piede in me. La mia volontà ne uscì fortificata. L’amore riprese a soffiare in tutto me stesso con quella determinazione di sempre. Dovevo andare avanti. Volevo donare tutto.
“Giuda, amico mio, affretta il tuo tradimento. Quello che devi fare fallo subito (Gv 13, 27).”
Cercavo conforto in coloro che mi avevano seguito. Dormivano. Mi sembrarono come bimbi ignari del destino del genitore che parte per la battaglia. Temevo per il loro futuro, per la loro fede. Volli svegliarli esortandoli alla preghiera “Alzatevi e pregate per non cadere in tentazione” (Lc 22, 46).
Anche loro prede. Anche loro, come me, destinate a vincere perché benedette dal Padre mio che custodiva i loro cuori con parsimonia.
Pietro mi aveva giurato fedeltà eterna: “Darei la mia vita per te” (Gv 14, 37). Adesso lo vedevo abbandonato al sonno, sopraffatto dalla stanchezza e sentivo la sua paura, quella che gli avrebbe fatto rinnegare il nostro passato insieme, dimenticare il progetto.
“Donna, non lo conosco!” (Lc 22, 57 ) avrebbe affermato mentre un gallo gli cantava il fallimento, ricordandogli chi era, confermandogli chi sono io.
“Padre mio, … si compia la tua volontà!” (Mt 26, 42).
Sapevo che Dio non mi avrebbe lasciato solo. “..io sono nel Padre e il Padre è in me..” (Gv 14, 10) avevo risposto a Filippo che mi chiedeva di mostrargli il Padre “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14, 9). Sentivo la sua mano come sempre lampada ai miei passi (Salmo 118, 105) e per questo non dovevo temere.
Quel filo di scoramento sul quale danzava la mia volontà mi riportava il ricordo delle tentazioni nel deserto. Anche allora Satana aveva provato ad insinuarsi nella fallibilità della mia natura umana. Aveva voluto misurare la resistenza di ciò che sapeva essere fragile in tutti gli altri. Conosceva bene le pieghe di un’anima indifesa. In me sottovalutava la mistura con la natura divina. Così non aveva voluto arrendersi, caparbio nel tentativo di aggiudicare un prezzo da corrispondere per la conquista ultima.
Dovette accontentarsi di ripiegare su chi mi stava accanto.
Giuda arrivò insieme ad altra gente determinato nell’affrontare il destino. Mi venne incontro fissandomi negli occhi. Nel suo bacio non trovai che vuoto, solitudine, tormento. Avrei voluto stringerlo per guarirne l’anima, così come per tanti altri era accaduto. Gridare a Satana di liberare il corpo, di perdere ancora una volta quella gara infinita. Giuda si scostò, così iniziò la storia che avrebbe detto al mondo che Dio ama gli uomini.
“Giuda…non ti ho forse amato abbastanza..?! Non ti ho forse cullato nel ventre di tua madre come con chiunque altro? Salvati..!! Fuggi. Scappa via dal rimorso che ti appenderà a quell’albero..”
Apparivano una serie di immagini in cui mi vedevo protagonista.
Adesso, le fronde degli ulivi si trasformavano nelle braccia di soldati aguzzini, vibranti fendenti carichi d’odio sul mio corpo indifeso. “Ecce Homo” avrebbe recitato una prima sentenza che tentava di scagionare da colpe inesistenti. La flagellazione rappresentava un’espiazione necessaria per salvarmi la vita.
Sentivo la pelle così sottile, coprire una carne maciullata dagli spuntoni delle mazze, dalle lame delle fruste. Ogni colpo produceva la scossa dei muscoli ed il dolore camminava velocissimo lungo quei piccolissimi nervi, ormai affioranti in superficie.
I miei occhi serrati in una smorfia di strazio; ancor più chiusi di quanto non fosse la bocca contratta nel tentativo di bloccare ogni sibilo.
La violenza di quegli uomini si scagliava sulla testa, sulle spalle, ovunque vi fosse una parte ancora non colorata dal rubino del sangue che a fiotti rimbalzava contro gli arnesi di quei macellai.
Quanto avrei potuto sopportare…?!
Le allucinazioni proseguivano nella proiezione del mio futuro.
Vedevo gli ulivi, intorno, trasformarsi da carnefici a vittime. Il fusto piegato sotto l’impatto dei colpi di vento che infieriva tagliente. Ogni ferita sul tronco distillava linfa che scivolava sino alle radici perdendosi tra le pieghe della corteccia. Così su me. Il sangue mi ricopriva interamente.
Caddi per l’ultimo colpo sferrato dal soldato alla mia sinistra. Un tonfo sordo. Nell’urto col suolo sentii le ossa cedere. Un dolore lancinante attraversò la schiena sino a raggiungere la base della testa proprio nel punto in cui il calcio del bastone aveva affondato la sua violenza.
Provai un male profondo, superiore a quello che può essere generato da una ferita o dallo strazio della carne.
La sofferenza nasceva dal tradimento, dall’abbandono. Sintetizzava tutta la negatività che il mondo era riuscito ad accumulare, da sempre. Quel male si riversava su di me, nello stesso istante in cui il mio corpo ferito testimoniava un bene supremo, nato dal sacrificio, immolato per la purificazione e la redenzione di tutti. Era questo contrasto a stridere enormemente, più dei miei denti serrati nel morso della sofferenza.
Ritornai in me ed il cuore sembrò placarsi. Anche gli ulivi rilassavano i loro rami e le fronde luccicanti per l’argento riflesso dalla luna. Le foglie quasi toccavano il cielo, distese nel tentativo improbabile di allontanamento dal suolo. Cercavano così di prendere distanza da quella stessa terra che stava preparando la scena per rinnegare il suo creatore.
Una lucciola di lanterna si fece spazio nel buio della notte ingrandendo lo sfavillio gradualmente. Si avvicinava a passo d’uomo e conduceva con sé uno scrosciare di armature e spade. Riconobbi quanto già visualizzato nella precedente premonizione e capii che tutto stava per cominciare.
Nel bagliore della lampada si materializzò la figura di Giuda mentre accorciava la distanza tra i nostri corpi. Dietro guardie pronte per la cattura.
“Chi cercate?” (Gv 18, 4) Sentii rispondere “Gesù il Nazareno”. In quel nome ravvisai il mio destino.
“Io sono”.
Giuda guadagnò spazio e avvicinatosi mi baciò sulla guancia. Era il segnale convenuto. Da lì in poi la storia avrebbe camminato lungo un sentiero parallelo.
Così, in quell’attimo, vidi il mio corpo inchiodato ad una croce ed il cielo tingersi del mio stesso sangue.
“Donna, ecco tuo figlio! (Gv 19, 26) … “Ecco tua madre!” (Gv 19, 27). Ascoltavo la mia voce mentre recitava un testamento spirituale, consegnando colei che mi aveva donato la carne. Completavo così un progetto perfettamente delineato.
Gridai. Gridai forte. Questa volta stentai a riconoscere la voce. Mi sembrò diversa. “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 24, 46). “Tutto è compiuto” (Gv 19, 30). La testa scivolò lungo il braccio completando il semicerchio verso il basso e l’ultimo fiato evaporò confondendosi tra le nuvole.
Con esso si perdeva la mia umanità donata a quegli uomini che mi avevano rinnegato e che io amavo da sempre.

sabato 6 marzo 2010

Caterina

“..Caterina..?!”
Voltò appena il capo, socchiudendo gli occhi su di un passato che, adesso, vedeva allontanarsi rapidamente. Rimase immobile quell’attimo necessario a riconoscere l’estraneità della voce e le sembrò di rimanere in un sogno, ovattato e malinconico.
Quella stessa voce, anni prima, aveva sillabato il suo nome con un tono ben differente e forse con sentimenti diversi da quelli di adesso. Come sembravano distanti quei giorni…. E come era diversa lei: ieri una ragazza piena di illusioni oggi una donna…
“Caterina!” insistette la voce maschile.
Lei era ancora ferma, con le labbra schiuse, le palpebre rilassate sugli occhi, le narici leggermente divaricate per inspirare tutto il profumo di quella nuova libertà che, finalmente, sentiva dirompere nell’animo.
Un refolo di vento le scompose i capelli, lunghi, ramati, che profumavano di cannella e miele e che le contornavano il volto.
Dovette sembrargli bellissima; perché era veramente quanto di più bello ed affascinante avesse mai avuto nella sua vita arida.
Caterina l’aveva incontrato per caso, come quasi sempre accade quando il destino non trova niente di meglio da far succedere. E così sono gli uomini o le donne a farne le spese. E quella volta era toccato a lei innamorarsi di un uomo non evidentemente bello, certamente non brillante, non particolarmente simpatico, …ovviamente non innamorato quanto lei...
“Caterina..?!” lamentava sua madre, lasciando una lunga pausa di silenzio tra l’esclamazione del nome ed il sospiro che accompagnava un dolore sordo appena accennato dall’aggrottamento delle sopracciglia sulla fronte.
Perché volle sposarlo rimase un mistero per tutti e, forse, anche lei qualche volta ebbe a chiederselo nel grigiore delle tante notti trascorse da sola. A volte piangeva in preda ad un rimorso ingenuo, un senso di colpa che le faceva credere d’essere inadeguata, incapace per portare avanti quell’unione. Quello strano rapporto a due retrocedeva progressivamente come la schiuma dell’onda richiamata alla deriva dalla corrente.
“Caterina..!” sussurrava sua madre le rare volte che riusciva a circondarle il corpo con un tenero abbraccio nel tentativo di non farla sentire sola, abbandonata. La sua piccola era rimasta gatta, infida e scontrosa; solitaria come le gemme più preziose quando vengono incastonate sull’oro.
Dieci anni sono un tempo enorme se trascorsi in solitudine. Possono sembrare la versione terrena dell’infinito. Tanto era trascorso da quell’unico, primo giorno felice che ufficializzava la loro vita di coppia.
Delle volte avanzava una richiesta di spiegazione per l’atteggiamento distaccato di lui, ricevendone solamente scherno e falsità. L’assenza era motivata dal lavoro, gli impegni; e poi cosa avrebbe dovuto temere… tornava ogni volta a casa…!
Alla fine, lei esaurì le lacrime e smise di piangere. Decise di riconquistare il dominio sulla pelle e sul corpo e cominciò a coltivare la passione per il massaggio e la cosmetica. Riprese colore e tono e, finalmente, ebbe il coraggio di guardarsi allo specchio come faceva da ragazza. Scoprì che il tempo non aveva giocato lealmente con le rughe e che l’argento insidiava il rosso della chioma. Provò vergogna per non aver saputo custodire il dono della sua vita….
Così decise. Capì che era giunto il momento di fare chiarezza, raccogliendo ogni piccola cosa che potesse testimoniare la sua sofferenza, il suo desiderio di riscatto, tutto il suo mancato amore.
Ritrovò i diari di quando era ragazza e s’immerse in una lettura attenta ed emozionata. Assaporò una fase della sua vita in cui era stata veramente felice e ne ebbe nostalgia. Poi il desiderio di poter sperimentare nuovamente quelle emozioni prese il sopravvento e così la lettura fu più avida, più irrequieta e veloce. Sull’ultima pagina impiegò un tempo doppio rispetto a quello utilizzato per la lettura di tutti i suoi scritti. Doveva rallentare, per compiere pienamente la trasformazione necessaria alla sua catarsi più piena.
Una mattina si alzò dal letto, elettrizzata dalla notte insonne. Aveva meditato a lungo; progettato ogni gesto, passo, decisione che avrebbe compiuto da lì a poco. Voltò il capo verso l’altra metà del materasso rimasta ancora una volta inutilizzata. Scostò con un gesto secco coperta e lenzuola che l’avevano custodita nella notte ed inspirò con una forza ed una capienza sorprendenti. Voleva risucchiare in sé ogni delusione vissuta in quella stanza; ogni emozione che era stata partorita ed abbandonata. Non avrebbe lasciato niente di sé in quella casa.
Raccolse i vestiti, i suoi libri, dei fiori di silicone acquistati in un bazar e che le ricordavano la primavera, un cappello di lana, il video del matrimonio in cui aveva riso tanto per l’effetto dello spumante, la colonna sonora del film Mission ed una Bibbia. Li mise come meglio poté dentro una valigia di stoffa, come quelle usate negli anni trenta nelle pellicole ancora in bianco e nero.
Sino ad allora, non aveva mai cercato conforto nella fede. Non si riteneva realmente credente. O meglio non fortemente praticante, priva cioè di quella costanza nel mantenere un rapporto che permette alla conoscenza di trasformarsi in amicizia, stima, amore, … Così Dio era rimasto a guardarla da lontano, dall’altra stanza. Ed ogni volta che entrava nel luogo dove si trovava Caterina lei inconsciamente usciva allontanandosi di nuovo. Era stata una continua rincorsa che, forse, adesso vedeva il traguardo: una delle prime mete da raggiungere.
“Caterina…” si ripeté lentamente, quasi per incoraggiare la decisione intrapresa. Ormai sapeva come far compagnia a se stessa; da tempo non temeva la solitudine: era l’unica compagna fidata.
Lanciò uno sguardo distaccato alle pareti del salone, indietreggiando sino alla porta d’ingresso. Si fermò quando sentì il legno rimbalzare sulle spalle. Rimase un istante appoggiata con le braccia lunghe accanto ai fianchi e la mano destra che serrava i manici della valigia. Fece un cenno col capo, come un saluto, alla casa che l’aveva ospitata e della quale non era mai voluta essere padrona.
La mano sinistra ruotò la maniglia ed il primo tepore del nuovo giorno si mescolò con la frizzantezza dell’aria mattutina posandosi sulle guance carnose. Si colorarono subito accompagnate dalla punta del naso. Lì fuori, il mondo cominciava a muoversi e gli occhi delle abitazioni spalancavano le serrande.
Tre gradini la separavano dalla sua nuova vita. Tre gradini in discesa. Li contò con lo sguardo e pensò che fossero di buon auspicio per la perfezione del numero primo e perché potevano essere percorsi rapidamente e senza fatica.
Socchiuse gli occhi per lo scherzo di un timido raggio di sole riflesso sulla cromatura di un auto. Quell’attimo le presentò tutto il suo passato e le fece intravedere uno scampolo di futuro.
Fu risvegliata dal richiamo di una voce conosciuta “…Caterina, già fuori di casa..?!” le domandò suo marito. Gli sorrise, senza rancore.
Quella mattina era già fuori… per sempre!

domenica 21 febbraio 2010

La Facoltà dello Stupore


La facoltà dello stupore sta nell’emozione suscitata da uno sguardo fuggevole, leggero, penetrante; lanciato per caso oltre l’orizzonte del proprio destino sino a giungere in riva al mare del tuo infinito.

La facoltà dello stupore sta in quel respiro che finalmente ascolti, dopo una lunga interminabile assenza durata… un istante…. E’ ricominciare a vivere, sentendo l’aria che riempie e inebria; frizzante, leggerissima.

La facoltà dello stupore sta nel gusto di un piccolissimo bacio, dato su labbra appena schiuse, acerbe, timide, impaurite. Sostare e poi allontanarsi nel timore d’aver sbagliato, d’aver perso tutto in nome di quel desiderio sempre presente, sin da quanto ti vidi per la prima volta, stupita.

La facoltà dello stupore sta nello sguardo che si poggia sulle mie figlie… 3 … Le conto, nella notte, come l’avido fa l’appello agli spiccioli nel timore di dimenticarne il tintinnio. Come contavo i giorni prima della loro nascita, nell’attesa di conoscere i lineamenti per scoprirne la somiglianza. Come i desideri concessi da un genio benevolo, che rimane asservito con la sua enorme potenza nell’impotenza di decidere.

La facoltà dello stupore sta nell’ascoltare il battito del mio cuore, ancora una volta e poi ancora…
Un ritmo incalzante che segna istanti e accadimenti e si propone come unica colonna sonora possibile. Ed ogni fuga in avanti racconta un’emozione forte che toglie vita al tempo.

La facoltà dello stupore sta tra le lettere distese su di un foglio bianco; quando è sera e comincio a giocare con le parole. Accade così, come ogni volta, che le emozioni si trasformino in scrittura compiendo il miracolo della creazione… E corrono veloci lungo strade che nascondono gli arrivi; in silenzio per non essere scoperte e non svanire…
… Anche stanotte… nello stupore..!!!

venerdì 12 febbraio 2010

Touch


“..Mio amore…!
Fatto di pelle lucida, di alito che gonfia il petto, di sangue che fa pulsare le tempie… mie. Ti guardo con occhi increduli per la bellezza che si rifrange contro. E scruto ogni tuo minimo accenno, timoroso di scoprire la distanza crescere tra i nostri corpi nudi.
Le braccia avvolgo sulla tua schiena e sui fianchi, come radici che stringono la terra fertile, bisognose di suggerne sostanza vitale. Così, sospiro, immobile. Avvolto da un pensiero morbido che vedo nascere agli angoli della tua bocca umida per i baci a morsi scambiati senza fretta. Quegli angoli arrotondati si distendono in un elastico di porpora e velluto che ondula le labbra e che trasforma il fremito in sorriso.
Ho bisogno del tuo corpo. Per sentire il limite tra il mio amore umano e l’amore che da sempre vive in ogni uomo…
La passione amplifica i sensi e con i denti affondo la presa sul tuo mento disponibile a divenire preda. E’ un bacio o forse cento che scandiranno il tempo dei nostri movimenti, lenti e parsimoniosi; avari perché desiderosi di trattenere tutto restando immoti.
Una lacrima di luce stilla dall’alba che nasce e inonda la tua fronte di cera; il colore irrompe padrone di quella parte del giorno che si annuncia sebbene ancora pallido. La scintilla del bagliore rimbalza sulle palpebre risaltando le ciglia scure ed il dorso del naso naturale scivolo su cui mi diletto con le dita.
Al primo tepore si amplifica il profumo di donna, inebriante come sempre. Incantesimo, mistero, alchimia di una natura maestra nel legare le emozioni alle percezioni. In un girotondo alternato in cui s’intrecciano tatto, gusto ed olfatto diventando catena per l’ancora o filo per l’aquilone. Capaci di portare negli abissi dell’ignoto o sulle vette della conoscenza suprema, senza mai perdere contatto con il corpo che rimane barca in balia delle correnti.
Quanto è delizioso rimanere tuo, sapendoti quella parte di me che non mi appartiene completamente; così da dover ripartire alla conquista, alla scoperta di quel mondo ancora vergine e puro. Terra agognata, appena avvistata e già scomparsa. Miraggio.
Abbandoni il capo sulla spalla scoprendo il collo che pulsa ad un ritmo costante. E’ un concedersi pienamente lasciando indifesa una parte debole alla vita ed ai sensi. Un dono metaforico, forse un invito.
D’impeto abbocco a quell’amo senza punta, piluccando la tua pelle madida.
Sento ogni tua cellula rispondere con una metamorfosi repentina. E si trasforma ruvida, increspata, turgida. L’emozione lega ogni piccolo nervo e s’impadronisce della coscienza. Poi, lentamente, quiete e ritorna al morbido.
“Mio amore…!” rimbalza tra la lingua e i denti, poggiandosi sulle mie labbra che accolgono le tue. E la voce che riconosco mi presenta un suono ancora nuovo, unico. Melodia che introduce ad un silenzio polifonico fatto di frequenze sconosciute all’uomo; pentagramma invisibile che trascrive un’opera in continua improvvisazione.
Sarai tu a dirigere, come sempre, gli strumenti del nostro idillio; perfettamente accordati sulla frequenza che conduce al sempre per sempre. Ogni nota un’unità di misura che saprà valutare non solamente il tempo, ma intensità e la qualità del suono che i nostri corpi emetteranno nella vibrazione d’amore.
“Amore mio…!” sfugge dalla mia mente in quella logica di possesso che mortifica ogni purezza insediando il semplice desiderio di appartenere. Reclama un diritto di prelazione su tutto finanche sui pensieri che corrono le strade anguste tra testa e cuore.
Schiudi gli occhi come per rassicurarti su chi sono e sorridi scoprendomi infante. Ancora troppo piccolo per quell’amore enorme che può distruggersi o sublimare. Sento le tue impronte solleticare il volto aprendo un contatto tra due identità diverse, complementari, puntate nella stessa direzione.
“..Mio amore…!” sussurri ancora con tono fermo e dolce. Ed io capisco il senso, la sua pedagogia. Decodifico il messaggio. Quel suono appare subito come se fosse dono, regalo da concedere a chi molto si ama. Si offre ancora unico, senza remore né timore; essenza fiduciosa con coscienza di minuscola goccia che bagna il grande mare.
Ritrovo il passo, la giusta direzione.
I nostri corpi lucidi riprendono a beccheggiare vicini come due barche piccole, ancorate, alla deriva.


sabato 16 gennaio 2010

La mano


Ti vidi e riconobbi il segno…
Il cuore mi parlò dei tuoi occhi trasparenti e acuti. E li guardai ammaliato e volli perdermi per ritrovarti ancora nei meandri della mia mente che pensa storie irrealizzabili, che sogna vite raggiungibili. E questa volta seppi trovare le parole per dimezzare la distanza, per stendere sul silenzio un ponte vacillante ed insicuro dal quale puoi cadere oppure trovare la salvezza.
La bocca tua si aprì per alitare un breve, minuscolo scampolo di vita. Ed io restai ammaliato, assorto in quell’abisso che raccontava mondi lontani eppure vicinissimi.
Chiamai il tuo nome usando il miele e l’oro per colorare il suono della voce con dolci consonanti e preziosissime vocali. Restasti immobile, assorta nel tuo mondo a cui bussavo estraneo. Così l’attesa e l’emozione tesserono insieme un filo di valore col quale ricucire i pezzi del mio cuore che si espandeva incauto.
Sembrasti una cometa che passa e che travolge lasciando solo luce riflessa nella memoria.
D’un tratto, senza avviso, le labbra tue si schiusero, ed io pensai, per dire. Ci fu silenzio spesso come una coltre candida, glaciale eppur bianchissimo. Poi il movimento seppe alzare gli angoli estremi di quella fessura carnosa pittata di porpora e amaranto e fu un sorriso timido.
Il segno tanto atteso tornava a incoraggiare il mio ardimento. Aprii un passo lungo verso il tuo confine ignoto e mi trovai ad un attimo da quelle labbra isola. Cercavo approdo morbido, anche se incerto e proibito; pertanto perlustravo le tue espressioni ingenue. Quando capii il messaggio, mi parve di svenire perché la risposta chiara parlava ai sentimenti. Perciò non badai più a nulla e il nulla riempì la mente di sogni, di stranezze, di immagini irreali.
Il coraggio è una follia che sfida anche il destino e nella sua incoscienza produce imprese folli con epiloghi trionfali. Ecco perché la storia racconta di eroi e non di matti.
Mentre viravo rotta tornando dal cuore alla coscienza sentii una piuma sfiorare le mie gote. Alzai lo sguardo e vidi le impronte tue disegnarmi il viso, per scrivermi un amore. Sorrisi. Sorridesti. E il mondo fu bellissimo perché per un istante parlava di noi due.
In quel silenzio statico chiesi la sua mano…!

martedì 12 gennaio 2010

Dancer


La danzatrice volteggiava, leggera, quasi impalpabile e i suoi respiri, percepiti appena, somigliavano al battere d'ali di una farfalla notturna. Con la mano sinistra roteava lo strascico del vestito di seta orientale regalatole dall'ultimo suo vero amore.... Ed il tempo segnava incessante un passo doble...
Malinconica come una mattina grigia e piovosa la sua cadenza mortificava la leggerezza ed il vigore con cui segnava le pose. Il fisico ancora asciutto e splendido, raccontava quanta parsimonia nel godere delle soddisfazioni che le dava la danza: rimaneva misurata, composta, senza che il roteare dei passi le potesse alterare la correttezza del vestito.
Elina, questo il nome che sapeva di leggerezza, viveva esclusivamente per la danza. Cominciava a credere che le cose vanno sperimentate per poi ottenere un rendiconto, una specie di esperienza documentale che possa fornire ulteriori chiarimenti.
Per questo aveva cominciato la sfida: iniziare a ballare per sapere cos’è il movimento…! Aveva deciso in fretta, vittima di una malattia che la costrinse immobile per interi mesi. I suoi muscoli non rispondevano ai comandi e lentamente cedevano spazio al sonno del fisico. Una specie di strana letargia che le intorpidiva i sensi surriscaldandole la pelle.
Malaria! Avevano diagnosticato i sapienti e la cura lentamente aveva riconquistato spazio per una salute ragionevole. Così, appena le forze le permisero di decidere per il corpo, stabilì che avrebbe ballato… per sempre!
Ricordava ogni nota delle musiche con cui si allietavano le feste nel vecchio salone della sua casa paterna, quando i fratelli, allora già uomini, invitavano le ragazze per le prime feste velatamente ingenue. Su quelle melodie costruiva, lentamente, le prime coreografie; tutte inventate e forse inguardabili. Ma per lei, quella danza era un rito di liberazione, l’unico modo che conosceva per entrare in sintonia con il mondo. Ballava e sapeva d’essere viva, in un posto vivo, e comprendeva che decidere è la metà imperiale dello sbagliare.
Quindi decise ed appena le fu possibile andò via da quella casa, concedendone la sua parte ai fratelli in luogo di alcuni abiti di sua madre e di un gioiello: un sottile semicerchio di brillantini che indossò ad ornamento della capigliatura crespa senza mai privarsene. Il luccichio delle pietre le ricordava l’infanzia, quando sua madre chinava la testa per porgerle le guance al fine di ottenere un bacio e la luce riflessa sulle pietre simulava un irradiante arcobaleno che s’infrangeva sulle onde della chioma di lei.
Quella luce le era rimasta negli occhi, per tutta l’adolescenza e anche oltre. Illuminava i suoi momenti bui, la notte della vita che, a volte, le faceva rimpiangere la scelta di non aver voluto creare una famiglia per seguire il suo amore: la danza…
Conosceva un solo compagno, Florian, il ballerino che da tredici anni le segnava i passi, dividendo con lei forme immaginarie, traiettorie dolci ed ossessionanti.
Florian le aveva promesso una fedeltà assoluta, superiore a quella che si giurano gli sposi. Non avrebbe mai danzato con nessun altro se non con lei. Questa decisione, ferma quanto inaspettata, aveva generato in Elina un turbamento forte: sentiva gratitudine e rammarico nei confronti di quell’uomo. Soprattutto il rammarico crucciava le sue notti. Sapeva che non avrebbe mai amato Florian e ciò le dispiaceva profondamente. Quel giuramento di fedeltà sportiva fatto dal suo compagno avrebbe meritato in contraccambio una promessa ancor più importante ma che necessitava non soltanto di volontà ma soprattutto di sentimento. Elina non sapeva mentire… neanche a se stessa.
Quella sera fu incredibile. La sala traboccava di occhi curiosi, puntati sul suo vestito di macramè. Il pavimento marmoreo rifletteva le luci dei lampadari ed il profumo dei cesti di fiori inebriava stordendo i sensi leggermente.
Florian prese la mano della danzatrice, poggiò un piccolissimo bacio sul dorso e sussurrò “.. è ora..!” Lei si voltò con lo sguardo assente preda della concentrazione e lo fissò interdetta come se non l’avesse mai scorto tra tanti altri. Poi il ticchettare della bacchetta del direttore indicò ai musicisti il tempo da dover seguire e la musica coprì il silenzio….
I passi avviarono da soli un movimento meccanico, perfettamente registrato, cominciando a scolpire le figure. Il pubblico trattenne il fiato per un tempo prolungato, come se quel mancato respiro potesse rinforzare il filo che legava ciascuno ai fianchi di Elina.
L’orchestra completò lo spartito ed il numero dei due danzatori rimase negli occhi ancora per altro tempo. Poi un applauso scrosciante… come un temporale tropicale che coglie di sorpresa e travolge.
Florian richiamò al centro della sala la sua compagna e la folla montò il brusio compiaciuto.
Elina tornò in sé dopo quel breve viaggio nel mondo del ballo, …nel suo mondo. Una piccola stella di sudore si staccò dalla fronte e scivolò al suolo. Lei, incurante, roteò il capo di 90 gradi cercando d’incrociare lo sguardo del compagno. Fu allora, dopo tredici anni, che scoprì un’espressione nuova: la tenerezza che quell’uomo provava per lei. Arrossì, sentendosi nuda davanti a quello sguardo innamorato.
Qualcuno dalla folla gridò “bis”…
Elina annuì con un sorriso appena accennato, voltò lo sguardo per incrociare gli occhi del compagno trovando il solito consenso incondizionato.
“… Vuoi ballare, ancora, con me….?!”