lunedì 26 aprile 2010

La solitudine non esiste

La solitudine non esiste! Sento intorno mille respiri e mille pensieri che s’intrecciano in gomitoli inestricabili: legano e catturano. Mille sguardi posano il velo della loro indifferente malinconia sulla mia pelle. Mille parole inutili pronunciate stancamente ma che riscaldano i pomeriggi bui. Così mi accorgo d’esser vivo, presente agli altri e soprattutto a me stesso. Così mi accorgo che la solitudine non esiste. Anche se fossi l’ultimo cuore che batte in un mondo isolato. Anche se fossi l’ultima goccia di un mare essiccato. Anche se fossi l’ultimo alito di vento in un’afa soffocante. Sarei io. E quindi presente a me; con quell’io che mi accompagna da sempre, che mai lascerà soli i giorni fintanto che la vita mi concederà un’alba e un tramonto, un sogno ed un risveglio, una sola morte ed una rinascita eterna. La solitudine non esiste. Me lo leggo negli occhi: nello sguardo curioso che scruta gli altri nell’intimo del quotidiano. Lo sento sui polpastrelli delle dita quando sfiorano una mano vicina anche se sconosciuta. Lo riconosco nel sonno di mia moglie quando riposa al mio fianco. La solitudine non esiste perché conosco Dio. Ed il suo amore mi circonda togliendo spazio alla noia, alla malinconia … alla solitudine!

venerdì 2 aprile 2010

Jesus

Quella sera fu l’ultima che trascorsi insieme ai miei amici.
Erano come fratelli; coloro a cui avrei affidato mia madre prima della dipartita. Li conoscevo uno ad uno e ne avevo cercato il cuore per farlo schiudere al calore della mia verità.
Raccontavo loro del Padre e della sua potenza. Tentavo di prepararli alla mia lontananza, a quando non saremmo più stati insieme.
E poi era giunto il tempo: i giorni avevano disegnato una traiettoria sino ad arrivare al momento del sacrificio, in croce.
Quella sera consumammo la cena con la stessa serenità di sempre, con allegria, sino a quando…
Sentii lo spirito del male attraversare le pareti della casa, roteare tra le teste dei miei fratelli in cerca della persona che avrebbe definitivamente scelto. Un alito gelido si spinse innanzi nel tentativo di sfiorarmi. Avevo già sentito quella tentazione; anche allora costretta a ritirarsi sconfitta. Così, vidi il male posarsi su Giuda… il mio Giuda.. Conosceva, come me, la sua debole volontà, la paura d’aver sbagliato tutto assecondando i miei progetti, la titubanza nella fede.
Satana seppe approfittare di un momento; quell’attimo in cui ciascuno si sente solo, abbandonato dal mondo. Quando le domande confondono la mente ed il cuore diventa insensibile nell’unico tentativo di difendersi.
Giuda non riuscì a sottrarsi dall’abbraccio maliardo, perfido, dell’eterno mio nemico. Il tentativo di resistere, dapprima risoluto, divenne sempre più flebile sino alla resa incondizionata.
Il male lo possedeva nell’ultima ora, dando inizio a ciò che era già stato scritto. Sapevo ciò che, da quel momento, sarebbe accaduto. Conoscevo la successione terribile degli eventi. Tutto necessario per liberare gli uomini dal peccato, per dar loro la possibilità di credere nell’amore di un Dio paterno, di un Dio che sacrifica quanto di più prezioso possiede.
Ero io, la preda, il sacrificio da immolare… io.
Nessuno può comprendere realmente ciò che sentivo. La condizione umana assunta era gradualmente divenuta esclusiva, totalizzante. Per un attimo, un insignificante, piccolissimo, irripetibile istante ho sperato che tutto si fermasse. Che come per Abramo si potesse rivedere il copione, modificandone l’epilogo. Che la morte dovesse ritornare sui propri passi senza aver raccolto frutto, con le mani inaridite e vuote per la mietitura mancata.
Quella notte, così buia. Nonostante fossi circondato dai mie amici mi sentivo assolutamente isolato. Distante da tutti: da coloro che mi bramavano per mortificare la mia vita, ma anche da coloro che mi amavano e che non seppero starmi vicino.
Le fronde degli ulivi gridavano un canto infausto ed il Getsemani si trasformava lentamente in un tribunale di sola condanna.
Il dolore cominciava a chiedere spazio tra la carne: irriverente conquistatore pretendeva il posto principale con l’obiettivo unico di offuscare la mente.
Vomitai al cielo un lamento “Padre allontana da me questo calice! ”(Mc 14, 36) “ ..Però non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22, 42).
Immediata la risposta. Un abbraccio caldo mi avvolse completamente sostenendo quell’eccesso di umanità che aveva preso piede in me. La mia volontà ne uscì fortificata. L’amore riprese a soffiare in tutto me stesso con quella determinazione di sempre. Dovevo andare avanti. Volevo donare tutto.
“Giuda, amico mio, affretta il tuo tradimento. Quello che devi fare fallo subito (Gv 13, 27).”
Cercavo conforto in coloro che mi avevano seguito. Dormivano. Mi sembrarono come bimbi ignari del destino del genitore che parte per la battaglia. Temevo per il loro futuro, per la loro fede. Volli svegliarli esortandoli alla preghiera “Alzatevi e pregate per non cadere in tentazione” (Lc 22, 46).
Anche loro prede. Anche loro, come me, destinate a vincere perché benedette dal Padre mio che custodiva i loro cuori con parsimonia.
Pietro mi aveva giurato fedeltà eterna: “Darei la mia vita per te” (Gv 14, 37). Adesso lo vedevo abbandonato al sonno, sopraffatto dalla stanchezza e sentivo la sua paura, quella che gli avrebbe fatto rinnegare il nostro passato insieme, dimenticare il progetto.
“Donna, non lo conosco!” (Lc 22, 57 ) avrebbe affermato mentre un gallo gli cantava il fallimento, ricordandogli chi era, confermandogli chi sono io.
“Padre mio, … si compia la tua volontà!” (Mt 26, 42).
Sapevo che Dio non mi avrebbe lasciato solo. “..io sono nel Padre e il Padre è in me..” (Gv 14, 10) avevo risposto a Filippo che mi chiedeva di mostrargli il Padre “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14, 9). Sentivo la sua mano come sempre lampada ai miei passi (Salmo 118, 105) e per questo non dovevo temere.
Quel filo di scoramento sul quale danzava la mia volontà mi riportava il ricordo delle tentazioni nel deserto. Anche allora Satana aveva provato ad insinuarsi nella fallibilità della mia natura umana. Aveva voluto misurare la resistenza di ciò che sapeva essere fragile in tutti gli altri. Conosceva bene le pieghe di un’anima indifesa. In me sottovalutava la mistura con la natura divina. Così non aveva voluto arrendersi, caparbio nel tentativo di aggiudicare un prezzo da corrispondere per la conquista ultima.
Dovette accontentarsi di ripiegare su chi mi stava accanto.
Giuda arrivò insieme ad altra gente determinato nell’affrontare il destino. Mi venne incontro fissandomi negli occhi. Nel suo bacio non trovai che vuoto, solitudine, tormento. Avrei voluto stringerlo per guarirne l’anima, così come per tanti altri era accaduto. Gridare a Satana di liberare il corpo, di perdere ancora una volta quella gara infinita. Giuda si scostò, così iniziò la storia che avrebbe detto al mondo che Dio ama gli uomini.
“Giuda…non ti ho forse amato abbastanza..?! Non ti ho forse cullato nel ventre di tua madre come con chiunque altro? Salvati..!! Fuggi. Scappa via dal rimorso che ti appenderà a quell’albero..”
Apparivano una serie di immagini in cui mi vedevo protagonista.
Adesso, le fronde degli ulivi si trasformavano nelle braccia di soldati aguzzini, vibranti fendenti carichi d’odio sul mio corpo indifeso. “Ecce Homo” avrebbe recitato una prima sentenza che tentava di scagionare da colpe inesistenti. La flagellazione rappresentava un’espiazione necessaria per salvarmi la vita.
Sentivo la pelle così sottile, coprire una carne maciullata dagli spuntoni delle mazze, dalle lame delle fruste. Ogni colpo produceva la scossa dei muscoli ed il dolore camminava velocissimo lungo quei piccolissimi nervi, ormai affioranti in superficie.
I miei occhi serrati in una smorfia di strazio; ancor più chiusi di quanto non fosse la bocca contratta nel tentativo di bloccare ogni sibilo.
La violenza di quegli uomini si scagliava sulla testa, sulle spalle, ovunque vi fosse una parte ancora non colorata dal rubino del sangue che a fiotti rimbalzava contro gli arnesi di quei macellai.
Quanto avrei potuto sopportare…?!
Le allucinazioni proseguivano nella proiezione del mio futuro.
Vedevo gli ulivi, intorno, trasformarsi da carnefici a vittime. Il fusto piegato sotto l’impatto dei colpi di vento che infieriva tagliente. Ogni ferita sul tronco distillava linfa che scivolava sino alle radici perdendosi tra le pieghe della corteccia. Così su me. Il sangue mi ricopriva interamente.
Caddi per l’ultimo colpo sferrato dal soldato alla mia sinistra. Un tonfo sordo. Nell’urto col suolo sentii le ossa cedere. Un dolore lancinante attraversò la schiena sino a raggiungere la base della testa proprio nel punto in cui il calcio del bastone aveva affondato la sua violenza.
Provai un male profondo, superiore a quello che può essere generato da una ferita o dallo strazio della carne.
La sofferenza nasceva dal tradimento, dall’abbandono. Sintetizzava tutta la negatività che il mondo era riuscito ad accumulare, da sempre. Quel male si riversava su di me, nello stesso istante in cui il mio corpo ferito testimoniava un bene supremo, nato dal sacrificio, immolato per la purificazione e la redenzione di tutti. Era questo contrasto a stridere enormemente, più dei miei denti serrati nel morso della sofferenza.
Ritornai in me ed il cuore sembrò placarsi. Anche gli ulivi rilassavano i loro rami e le fronde luccicanti per l’argento riflesso dalla luna. Le foglie quasi toccavano il cielo, distese nel tentativo improbabile di allontanamento dal suolo. Cercavano così di prendere distanza da quella stessa terra che stava preparando la scena per rinnegare il suo creatore.
Una lucciola di lanterna si fece spazio nel buio della notte ingrandendo lo sfavillio gradualmente. Si avvicinava a passo d’uomo e conduceva con sé uno scrosciare di armature e spade. Riconobbi quanto già visualizzato nella precedente premonizione e capii che tutto stava per cominciare.
Nel bagliore della lampada si materializzò la figura di Giuda mentre accorciava la distanza tra i nostri corpi. Dietro guardie pronte per la cattura.
“Chi cercate?” (Gv 18, 4) Sentii rispondere “Gesù il Nazareno”. In quel nome ravvisai il mio destino.
“Io sono”.
Giuda guadagnò spazio e avvicinatosi mi baciò sulla guancia. Era il segnale convenuto. Da lì in poi la storia avrebbe camminato lungo un sentiero parallelo.
Così, in quell’attimo, vidi il mio corpo inchiodato ad una croce ed il cielo tingersi del mio stesso sangue.
“Donna, ecco tuo figlio! (Gv 19, 26) … “Ecco tua madre!” (Gv 19, 27). Ascoltavo la mia voce mentre recitava un testamento spirituale, consegnando colei che mi aveva donato la carne. Completavo così un progetto perfettamente delineato.
Gridai. Gridai forte. Questa volta stentai a riconoscere la voce. Mi sembrò diversa. “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 24, 46). “Tutto è compiuto” (Gv 19, 30). La testa scivolò lungo il braccio completando il semicerchio verso il basso e l’ultimo fiato evaporò confondendosi tra le nuvole.
Con esso si perdeva la mia umanità donata a quegli uomini che mi avevano rinnegato e che io amavo da sempre.