domenica 7 agosto 2011

Corre il tempo

“Il tempo è soltanto una convenzione!!” – sentenziò mio nonno poco prima di morire. Centotre anni, cuore e testa liberi dal peso dell’età; come se i primi cento non fossero stati una successione di mesi bensì di pochi, brevissimi giorni. Aveva voluto lasciare, a tutti noi, l’idea che la leggerezza può abbinarsi al decadimento fisico, all’insulto del tempo. E vi era riuscito, perché io l’ho sempre creduto giovane; pensato eterno e quindi immortale. Come un albero secolare che supera stagioni, decenni, sfiorando il millennio con i suoi germogli nuovi, quelli ancora verde acerbo, che profumano di campagna acida e riflettono la luce del sole in balia del vento insidiante.
Mi piaceva tenergli la mano, perché dal contatto con essa capivo quanta storia avesse percorso. Quella parte tradiva una condizione manifesta di vetustà … In quel punto la pelle era diventata sottile e scura, ricoperta da macchie diffuse. Le vene, ingrossate, poggiavano sul dorso come piccoli tubi violacei intenti a creare un canale tra il braccio e le dita, sprofondando nelle falangi rigonfie. Un disegno, una mappa di come la vita aveva intrecciato gli eventi, le esperienze.
Mi diceva “.. corri, corri, figlio mio … perché fintanto che corri la vita ti sorriderà ..”
Non capivo, esattamente, cosa volesse dire ma mi piaceva l’idea del movimento. Era vicina al mio modo d’essere. E così correvo, veloce, a piedi nudi, sui pattini, con la mia bicicletta rosso fuoco.
Quest’ultima divenne la compagna abituale perché quando m’inerpicavo sui suoi pedali sentivo una forza prorompente che, dalla punta dei piedi, passava su per le gambe, glutei, schiena ed arrivava alle spalle proiettate sul manubrio. Quell’arnese di alluminio, gomma ed aria aveva un potere catalizzante amplificando l’energia che si sviluppava nel mio corpo sino a farla diventare dirompente. Io e lei, fusi insieme. Eravamo una cosa unica ...
Qualcuno si accorse di quest’alchimia e cominciò ad osservarmi con curiosità crescente; ed aumentavano le domande che volevano conoscere, capire quel mistero anche a me ignoto. Io non chiedevo altro; bastava ciò che le mie fibre conoscevano nel profondo, che sperimentavano da tempo durante le passeggiate su due ruote.
Cominciai a correre sempre più spesso. Inforcavo la mia bici e pedalavo imparando a conoscere il senso dell’alternanza; bilanciando le due metà di me per renderle simmetriche e diseguali al tempo stesso. Una danza fatta d’istinto. Una lotta celebrata sul limite che separa l’impresa dal fallimento; giudice di me stesso, aguzzino e salvatore.
L’uomo delle domande si presentò come amico di mio nonno, lo stesso giorno del suo funerale e mi disse che dovevamo onorare quella memoria con un’impresa; qualcosa di straordinario, ai limiti del credibile e del possibile. “Devi vincere il tempo..!! - esclamò con la stessa enfasi con cui mio nonno mi parlava di quella convenzione umana .. - .. solamente tu puoi farlo. Tuo nonno, ormai, non può più.”
Fu allora che sentii, per la prima volta, una piccola lama di dolore tagliare il legame tra me e quella figura familiare che aveva accompagnato l’infanzia. Il freddo del distacco salì su per la schiena provocando una scossa proprio sulla nuca, sotto l’attaccatura dei capelli. Gli occhi sgranarono gli angoli, per un attimo, ed apparve la sua immagine, mio nonno, a ripetermi le frasi di sempre che finalmente comprendevo in pieno.
“Va bene – dissi – posso vincere ..” e così cominciò un periodo lungo e difficile, più di ogni percorso in salita, più di quanto pensassi. Tuttavia amavo andare in bici e l’obiettivo prefissato era ben chiaro alla mente ed alle gambe: battere il record su pista.
“Salirai sulla vetta del mondo – affermò, un giorno, l’uomo amico del nonno – e da lì potrai gridare a tutti quanto l’amavi ..” Le parole risuonarono a lungo, come un'eco che non riesce a trovare cassa di risonanza e rimane muto. Poi, passarono dalla testa al cuore e lì amplificarono tutto il rimpianto per non aver avuto prima un suono, per non esser mai state dette, prima.
Non ero il solo a correre. Anche il tempo procede spedito e senza soste. Così mi ritrovai presto di fronte al limite che avevo inseguito per mesi, sognato, ed oltre al quale volevo spingermi.
Lo sparo si allontanò dalla pistola e prima che le sinapsi trasmettessero il comando, istintivamente, la gamba destra forzò il pedale. Il via ..!! La macchina perfetta cominciava a roteare le sue leve generando movimento, velocità. Lo stupore della gente montava lentamente e l’adrenalina cresceva alterando battiti e respiro. Inanellai un giro su l’altro. Tutti perfetti. Mani salde sul manubrio, muscoli guizzanti, sguardo concentrato sul cronometro: quindici secondi sotto il record .. il sogno stava per avverarsi!
Il tempo si costruisce su tanti piccoli attimi, apparentemente insignificanti. Tuttavia l’inesatta successione di questi causa alterazioni tali da stravolgere gli eventi …
Quel viaggio onirico fu interrotto dal boato del pubblico quando la ruota anteriore, imboccata l’ultima curva, piegò irrimediabilmente sulla pista.
Il mio corpo ondeggiò prima di accasciarsi al suolo completando la corsa con una scivolata inarrestabile. Sentii bruciare l’orgoglio ancor prima della pelle. Il gelo, intorno, rendeva quel momento surreale ed irripetibile … ma non come avrei voluto.
Pensai a mio nonno alla sua sconfitta contro il tempo … alla mia. Un senso d’angoscia cominciò a reclamare spazio tra i pensieri in modo sempre più insistente. Provai ad opporre resistenza e fu l’ultimo attimo di lucidità a riportare alla mente la frase che ha dato senso alla mia vita rendendomi vincente, nonostante tutto.
“Il tempo è soltanto una convenzione!!”

venerdì 17 giugno 2011

Caterina

“Caterina…?!”
She turned her head slightly, half-closing her eyes on a past which, now, she realized was rapidly disappearing. She stopped dead still for a moment, enough to realize the strangeness of the voice and she seemed to be living in a muffled, melancholic dream.
That same voice, years ago, had pronounced her name in quite a different tone and, perhaps, with different feelings from those of the present moment.
“Caterina!” repeated the male voice.
A soft breeze upset her long hair which framed her face and gave off the perfume of spices and honey. She must have seemed very lovely to him because her face was really more beautiful and fascinating than it had ever been in her uneventful life.
Caterina had met him by chance as nearly always happens when our destiny has nothing better to do. On that occasion it was her who fell in love with this person who, at first glance, was not particularly handsome and certainly not brilliant, neither was he very genial…..he was obviously not as much in love as she was….
In the end everything was consummated; she dried up her tears and left off weeping..
So she decided. She made up her mind realizing that the moment had come to make everything clear, she reflected carefully on every little detail that could testify her suffering, her desire to get her own back, all the love she had not received.
One morning, while getting out of bed, she felt electrified by the fact that she hadn’t slept a wink. She had spent all night meditating, thinking of every move she was about to make regarding the decision she was soon about to take. She turned her gaze towards the other side of the bed which had not been slept in and then, She had no intention of leaving behind any trace of herself in that house.
“Caterina” slowly this time, she repeated as if to encourage the decision that had already been made. She had already got used to keeping herself company and for a while now she no longer feared being on her own. Solitude was her only faithful friend.
She put her left hand on the handle and the first warm rays of the sun, together with the fresh morning air fell on her full cheeks and nose colouring them immediately…
Just three steps separated her from a new life. Three downward steps. She counted their number thinking that it would be a lucky sign and because she could descend them rapidly and with perfect ease.
She half-closed her eyes to protect them from a ray of sunlight reflected from the chrome fittings of a passing car and that moment reflected her whole past and a glance into her future.
She was awakened by a voice she knew “ …Caterina, has she gone out already? asked her husband. She smiled at him with no bad feelings.
That morning she was already off…forever!

giovedì 9 giugno 2011

Due

Guardammo a lungo, nella stessa direzione, oltre l’ombra creata dal sole sulle nostre sagome, oltre il confine del visto e del visibile, oltre ….
Provai a distendermi per respirarti accanto e tu facesti spazio alla mia esuberanza. Così restammo immobili ad osservare il tempo che fa ruotare le stagioni; che brucia e che rigenera al canto della vita.
Nessun suono se non quello che fa il vento quando sciama, trascinando i profumi ed i pollini in un turbinio di … casualità organizzata. In quel silenzio non convenzionale parlai al tuo cuore per raccontare delle gocce di brina che scivolano lungo il fusto sino a giungere a terra e dei riflessi ambrati dell’alba che scaldano e trasformano le nuvole in mostri o angeli ribelli ...
Poi, aspettai sera, quando la luce piega le forme e le ombre vanno a dormire: solamente allora ti sfiorai l’estremità tremanti ed un brivido scosse le fronde emettendo un fruscìo complice.
Non vidi il tuo sguardo nel nero infinito. Una stella sfumò la sua parabola indecisa sul velo che copre la natura. Pensai a noi due, ancora, sentinelle della notte ...

giovedì 28 aprile 2011

Ultimo treno

I colori della notte diluivano con le luci artificiali dei lampioni. Tutto sembrava finto, anche le stelle che lentamente scompaiono con il bagliore delle luci cittadine.
Charlot sbuffò fiato caldo sulle nocche raggomitolate a riccio per il gelo insinuatosi tra le ossa. Una sensazione di sollievo le permise di sgranare gli occhi fissando l’orologio della stazione.

Nello stesso istante la lancetta più lunga staccò un centimetro alla sua ora aggiungendo, così, un altro minuto alla storia - 23.47 - Solamente centottanta secondi la separavano dalla coincidenza con il destino. Tre, piccolissimi, minuti di silenzio prima dell’annuncio meccanico e del fischio graffiante del locomotore. Troppo per chi aspetta; troppo poco per chi deve decidere il futuro …

Charlot è giovane, decisamente bella. Capelli corvini che scivolano su spalle rotonde; alta più della media. E’ sempre stata così sin da piccola, quando le venivano inibiti i primi posti per evitare che ostacolasse la vista ai compagni. Pelle chiara a far da contorno ad occhi verde bottiglia. Gambe lunghe, lei, che disegnano una falcata decisa e leggera; quel passo che in tante occasioni le ha permesso di ridurre la distanza tra ieri e il domani. Che le ha permesso di tenere un ritmo insistente, caparbio, e le ha fatto superare ostacoli apparentemente insormontabili e fuggire da pericoli fortunatamente prevedibili.

Adesso è immobile e sembra uno di quei lampioni anonimi e algidi che illuminano senza riscaldare. Osserva la punta dei suoi stivali neri, lucidi, mentre riflettono il bordo del cappotto sfuocato per la rifrazione dovuta all’umidità. I suoi trent’anni le stanno incollati addosso come un abito preso a noleggio; come un costume di scena pronto a raccontare un personaggio differente dal suo. Vorrebbero ricordare un’altra età, fatta di caramelle, bambole nuove, sorrisi amorevoli, rossetti, gonne con i merletti, tacchi alti, borse colorate … invece …

Charlot lancia lo sguardo oltre i binari, supera la banchina opposta e continua al di là della siepe che contorna la stazione. I suoi occhi, adesso sembrano spenti, come fiaccole a cui viene meno l’ossigeno. Perdono quota gradualmente sino a scendere sul marciapiedi, superare la linea gialla del

pericolo e fermarsi sul luccichio delle rotaie. Metallo, freddo, come quello di una lama tagliente o la canna di un fucile ..

Sospira, ingoiando l’ultima saliva rimasta; un boccone amaro che precipita giù per la gola e si ferma sul cuore senza poter cadere oltre ..

Sente biascicare parole di latta dall’altoparlante, interrotte da un fischio ancora, relativamente, lontano. Quel suono le ricorda un pallone, un campo di calcio, una maglietta sudata, gente che urla … il suo vero nome … “Carlo..!”

E’ un attimo, perché il dolore può avere il sopravvento solamente per un attimo; poi bisogna rimuoverlo o perire per sempre. E lei ha sempre voluto vincere la battaglia con i sentimenti, con quelle emozioni che l’hanno in principio coinvolto … poi, travolta … convinta a riscrivere la storia, un destino, un intero codice genetico.

Lei così sicura di poter fare a meno di tutti, di una famiglia, degli amici, di quella parte di sé che non aveva mai sentito propria. Come un accento sbagliato sulla parola più bella, o uno scarabocchio infantile sul disegno dell’artista.

Aveva deciso in fretta di cambiare, di rinascere. Ed era partita da quel nome con un suono straniero per confondere i curiosi e non dimenticare sua madre che l’aveva scelto. Che corsa per guadagnare tempo; riconquistare ciò che aveva perso nella sua vita precedente. Riappropriarsi di ogni piccolo tassello per costruire la donna dei suoi sogni. Aveva trovato un lavoro, casa, un’auto nuova e gli amici … e poi l’amore. Quello che ti fa capire che sei viva, che sei nata per un progetto preciso, che niente al mondo può distruggere la tua felicità.

Si sentiva pronta a raccontarsi ad aprire quello scrigno segreto che da sempre conteneva le perle di quella vita così complicata, vissuta in difesa e per questo in solitudine. Era pronta per farvi entrare l’uomo giusto per lei, quello che non era mai riuscito ad essere e che adesso desiderava possedere in modo differente…. Quell’uomo che non seppe resistere alla paura dell’ignoto, di quella verità così pesante e coinvolgente, di una diversità - ..anormale! - disse.

Le parole possono uccidere più delle armi; possono sgretolare i sogni più del peggior risveglio. Charlot non seppe reagire al giudizio, come per le altre volte. Ebbe la forza di voltare le spalle e correre più lontano possibile, più veloce del dolore che sentiva arrivare da fuori sin dentro l’anima. Capiva che la sua vita non avrebbe avuto più alcun senso. Che non sarebbe servito cambiare ancora una volta, tentare di ricostruire, resistere, ricominciare. Un futuro possibile avrebbe raccontato lo stesso epilogo. Questa volta bisognava scioccare il destino; intraprendere una rotta contro vento improvvisa quanto definitiva …

Un nuovo fischio annunciò il sopraggiungere del locomotore con i fari grandi che lanciavano fiaccole di luce. Charlot chinò il capo abbassando lo sguardo abbagliato. Alzò il piede destro per completare quell’ultimo passo e sulla punta degli stivali riconobbe il suo volto smagrito dal freddo, dalla paura, dall’ansia per la scelta. Sentì stridere ruote e rotaie e i freni che avrebbero completato l’opera almeno un chilometro dopo la sua postazione… lo spazio giusto per una sentenza ..

Pensò a sua madre, che aveva sempre desiderato una figlia e che, a lei ancora ragazzo, diceva “..la vita non è solo tua ..ognuno di noi serve a qualcosa ..” E si ricordò delle carezze, delle caramelle, del profumo di bucato fresco e di una ninna nanna.

Il treno passò oltre decretando la fine del tempo utile per decidere e fermando la sua corsa con un tempo sincrono al singhiozzo che si spezzava nella gola di lei.

Charlot alzò lo sguardo ed i suoi occhi umidi rimbalzarono sul vetro del vagone. Il verde bottiglia aveva appena riacceso una fiammella alla notte e la vita ricominciava a reclamare il suo futuro.





giovedì 6 gennaio 2011

Per sempre ...

“So bene chi siamo; l’uno per l’altro. E finalmente ho capito cosa dovremmo fare: scambiarci gli anelli davanti ad un altare ed un prete.
Dovrei dire sì cosciente della tua identica risposta. Solo sì e nient’altro. E tu ricevere questa promessa sottoscrivendola sugli atti e sul tuo cuore. Ti amo ….”
Le sussurrai queste parole, mentre il treno fischiava il richiamo alla partenza. Quella lunga collana di vagoni e rotaie che avrebbe portato Elenoire lontano da me, forse per sempre …
Un tempo eravamo riusciti a raccontare al cuore un amore fatto di passione, di sorpresa, di desiderio di conquista … un amore travolgente che mi aveva sradicato dalla terra, dal lavoro … da un altro amore ..
Ricordavo ancora il sapore di quel primo, morbidissimo bacio, rubato alla notte ed alle sue labbra schiuse appena, più per vergogna che per ritrosia. Allora mi respinse accompagnando il movimento con una smorfia di stupore ed incredulità che cedeva spazio, incontrollata, ad un accenno di sorriso. Fu la cima a cui volli aggrapparmi, convinto che da lì cominciava la scalata verso una meta incredibilmente complicata ma assolutamente straordinaria.
Avevamo vissuto tre anni intensi, in cui la vita era riuscita a rappresentare una parte di sé ancora sconosciuta: quella che sottende ai miracoli, ai sogni realizzati. E in quel periodo, così breve, ci eravamo sentiti l’uno per l’altra, consapevoli di doverci donare reciprocamente con cosciente abbandono.
L’amore per me, sino ad allora, era sempre stato un gioco in cui il più abile riesce a conquistare qualcosa dell’altro. Così mi divertivo a far incetta di sentimenti, di tempo, di illusioni, di piacere. Prendevo tutto dall’universo femminile che mi attraeva con una forza incomprensibile. Sapevo di non dover chiedere molto di più; di non dover dare quasi niente in cambio.
Tuttavia, appena vidi il suo sguardo chiaro, le fattezze angeliche, le movenze gentili, capii subito che non sarei stato abile a carpire quell’amore, nonostante l’esperienza; piuttosto l’amore avrebbe potuto scegliere noi eleggendoci a suoi rappresentanti.
Accadde e fu come scartare un regalo inaspettato, o incontrare qualcuno di cui non conosci l’esistenza e scoprire d’aver sofferto la mancanza …
Onorammo quel compito, tacitamente assegnatoci, per diversi mesi, durante i quali il sentimento giocò ad annodare le nostre storie come fili di colore diverso fusi nella definizione dell’unica immagine. Un idillio, un sogno ….
Così, mentre sussurravo quelle parole, nell’umido grigiore della stazione, ripensavo a come era cambiato tutto da allora e percepivo la sua distanza anticipata non dall’assenza fisica bensì dallo sguardo rivolto verso un altrove in cui non ero più presente.
La gola intrecciò nervi e muscoli e la voce ritrasse la potenza per dare spazio ad un filo di suono emesso come rantolo con cui costruivo il suo nome. Voltò lo sguardo e ritrovai il castano intenso in cui spesso diluiva il mio ritratto.
Quante volte avevo vissuto quella scena, in altri luoghi e con altre lei, interpretando la parte opposta a quella attuale. In quelle circostanze ero uscito vincitore perché conoscevo bene il copione e sapevo quale epilogo avrebbe avuto la storia. Questa consapevolezza mi terrorizzava trovandomi, adesso, protagonista passivo, indifeso ed indifendibile.
Per troppo tempo aveva atteso quella dichiarazione d’intenti. Ed io ero stato lì a fissare la sua pazienza e la sua instancabile comprensione, convinto che sarebbe bastata per un periodo indefinito in cui io avrei potuto riordinare i miei sentimenti reinterpretando la mia vita. Per questo motivo non avevo mai seriamente parlato a me stesso di Elenoire …
La mattina in cui mi comunicò la partenza capii che il mio tempo era finito. Capii che la storia aveva atteso invano una mia maturazione, una scelta.
Non risposi nulla, abbassando lo sguardo sulla sua mano sinistra in cui indossava ancora un anello di pietra verde che avevo voluto regalarle a Natale. Si accorse e richiuse il pugno. Quel gesto, certamente involontario, ebbe la forza di sollecitare il cuore più delle parole udite. In quella mano scompariva tutta la nostra vita insieme, accartocciata e nascosta per sempre.
Il cuore sa leggere gli eventi ancor prima della coscienza. Quel pugno riuscì a colpirmi in mezzo al petto senza fatica, senza spostare un filo d’aria, senza movimento. Eppure fu terribile e doloroso.
In mente ripetevo il suo nome come un disco impazzito o semplicemente rotto … Arrivai a sera con la testa piena di lei come non era mai successo prima o come forse non avevo mai notato. Così pensai che privato del suo nome, della sua presenza, niente sarebbe stato più lo stesso. Credetti che, anch’io, non sarei più stato l’uomo di prima. Si amplificava una sensazione di vuoto, di perdita, paragonabile solamente alla morte.
Senza Elenoire sarei tornato solo e non mi bastava più …
Il treno era quello delle 12.05. Percorsi il sottopassaggio che porta ai binari correndo senza pensare, con la sola convinzione di trovarla per dire qualcosa di unico, di semplice. Divorai le scale saltando i gradini a tre a tre ed emersi in prossimità della banchina in cui era presente .. il mio amore. Dichiarai così a me stesso nel vederla e rimasi stupito di quella nuova consapevolezza.
Le frasi che pronunciai non erano state studiate per far colpo o per costringerla a retrocedere nella scelta. Piuttosto una spontanea eruzione di sentimento, una confessione.
Il suo silenzio mi gettò in uno sconforto imbarazzante. L’ansia lievitò sino a raggiungere il panico. Lo sguardo di lei perso nel vuoto mi preannunciava un vuoto ben più ampio ed invadente. Un attimo in cui credetti di perdere il tutto di me che ancora non conoscevo pienamente …
“.. Solo sì..” – ripetei con un filo di voce implorante, lanciata contro la rassegnazione nel tentativo finale, improbabile.
Il treno fischiò l’ultima chiamata.
Lei alternò lo sguardo sul vagone e poi su di me, come innanzi ad un bivio, ad una scelta non più rimandabile.
“ .. voglio chiederti una sola, semplice cosa..” – bisbigliò – “… ma tu mi ami..?!” – continuò con tutta l’incertezza che sbiadiva la potenza di quell’interrogativo dirompente.
La sua voce fu come un lampo che rischiara il buio della notte; la ferita aperta che fa sentire il calore del sangue vivo.
“Ti amo .. e per sempre ..” - risposi senza esitazione alcuna e senza riuscire ad aggiungere altro. Non avevo mai avuto il coraggio di dichiararle il mio amore, sino ad allora sconosciuto anche a me stesso.
Mi guardò con una luce nuova che faceva brillare gli occhi. Le guance le si colorarono di albicocca ed il suo profumo mi coprì ricordandomi il sapore della sua pelle. Poi la sua bocca si schiuse in una sillaba.
Finalmente, il treno sbuffò, sconfitto, ed iniziò un’accelerazione verso l’ignoto.

martedì 3 agosto 2010

La Via del Ritorno

La via del ritorno conduce sino a casa. E’ differente rispetto all’andata: non il semplice percorso inverso che credi di conoscere così bene. Piuttosto, è una strada larga perché su di essa trasporti ciò che hai saputo trovare, vivere, ciò che ti hanno regalato. Per tale motivo ti costringe a segnare il passo, per fare memoria. Perché essa è come un fiume che trascina ciò che incontra e trattiene solamente il materiale pesante; tutto il resto, il futile, scorre e sparisce rendendo la via libera per un altro cammino.
La via del ritorno racconta un passato prossimo del quale senti ancora l’odore, riconosci i suoni. Non si è spento il sole sull’ultima sua immagine che già l’alba successiva riscalda i nuovi raggi. Una corsa contro il tempo, una clessidra che travasa. Sulla via del ritorno non vi è niente di nuovo, piuttosto ogni cosa si trasforma acquistando nuova forma e nuovi colori. E senti d’essere cambiato; e speri di trovarti migliore. Un’occasione per rientrare in sé stessi o un nuovo inizio per allontanarsi per sempre.
La via del ritorno è come un mosaico in cui ogni tessera contiene in sé l’essenza del disegno finale. Di ciascun frammento non puoi farne a meno perché quel minuscolo vuoto generato apparirebbe come voragine agli occhi dell’osservatore attento. E’ un’immagine senza contorni che assume forma e dimensione libera, in funzione della passione infusa, del coraggio dimostrato, del sudore stillato, della fatica consumata durante tutto il tragitto.
La via del ritorno è un viaggio in compagnia; ti concede il privilegio di sentirti gruppo se hai creduto nei compagni. Così da far dimenticare l’andata consumata in una timida e formale solitudine, vagamente diffidente. Un gioco di rapina ed estrema generosità in cui puoi prendere, cosciente di dover donare tutto te stesso. Solo adesso riconosci i volti affidando a ciascuno un nome, il ricordo preciso di una frase o un fatto. Di alcuni senti già la mancanza di altri percepisci la perenne assenza.
La via del ritorno si attraversa nel silenzio che parla al cuore e che racconta l’intero viaggio appena completato. Come un deserto apparentemente arido in cui sai di poter trovare oasi ed orientamento. E’ la distanza esatta tra passato e futuro. La mappa che hai saputo interpretare per la scoperta del tesoro o l’enigma irrisolto che ha ossessionato le notti. Il filo su cui l’equilibrista lascia scorrere i passi per accorciare la distanza tra sé ed il vuoto.
La via del ritorno è lunga e lenta e concede soste per assaporare il gusto della malinconia. Orizzonte sul futuro che conferma l’assenza di un solo arrivo. Pertanto essa stessa è ripartenza verso una meta nuova, un progetto, semplicemente una direzione; guida con la curiosità di sempre, quella che mette in cammino e che rende insofferente la sosta se non per cambiare valigia.
La via del ritorno, per chi cerca Dio, non è la conclusione del viaggio bensì una tappa d’avvicinamento.

sabato 22 maggio 2010

Chi comanda è il cuore

Chi comanda è il cuore..!
L’affermazione si arroga il ruolo di depositaria di verità assoluta, inconfutabile.
Il cuore.
Varie le correnti di pensiero: in tanti credono che la supremazia spetti al cervello, l’organo supremo da cui ogni azione importante si muove. Da cui nasce il pensiero che così concepito distingue l’uomo dal non-uomo. Capace di costruire idee e di tramandare la storia. Stendardo.
Menzogne! Illusioni o forse incomprensibili errori.
Chi comanda è il cuore!
Chi crede di poter sfidare quest’affermazione provi ad intrecciare la logica con i ricordi. Scoprirà un mondo in cui il cuore ha segnato il tempo misurando ogni istante con battiti precisi, autoritari.
La prima carezza di una madre, la sensazione di sentirsi stretti al petto. Il bacio notturno del padre rassicurato dal finto sonno dei figli; il primo innamoramento… tutti gli altri. Un progetto realizzato o un terribile fallimento.
L’intera esistenza è sempre filtrata da quell’organo cavo scambiato per muscolo. Che fa percepire la sua presenza invadente in gola, o nello stomaco costringendo a misurare, invano, la sua indistinguibile grandezza.
Il cuore.
Il coraggio lo ha nutrito costantemente e la passione lo ha tenuto in vita. I dolori hanno scavato solchi ed intrecciato cicatrici e la noia l’ha incancrenito. Ma nonostante tutto ci ha condotto sino a qui e non ci abbandonerà senza una ragione.
Lo sentiremo accanto quando tutto sarà distante da noi: in quell’attimo estremo indicherà la strada da percorrere per ascoltare nuovi battiti, differenti, infiniti. E sarà il suono più forte dell’universo. Rimbomberà sui timpani chiamandoci con voce divina. Segnerà un passaggio nascosto, come un filo di luce che si snoda tra la vegetazione più fitta. Un campanello inverso che annuncerà la nostra partenza attraverso l’assenza di suono.
Chi comanda è il cuore!
Perché ha detto al mondo che esistevamo già da prima che il mondo ci vedesse, quando un puntino lampeggiante annunciava il nostro nome per bocca di chi ci avrebbe amato per sempre.
Quando avrebbe voluto dividersi per regalare vita a chi stava perdendola.
Ha saputo tacere per non far prevalere la disperazione nelle tante occasione di angoscia; ha voluto ricominciare dopo le troppe sconfitte.
Chi comanda è il cuore!

domenica 9 maggio 2010

Mamma


Ho chiamato a piena voce il tuo nome, respirando il profumo che riconosco tuo da anni.
Può l’amore correre sul filo di uno sguardo e passare da un corpo all’altro senza trovare riposo ma solamente scambio..?! Questo sperimento con te, mamma; ogni volta che incrocio la direzione del tuo guardare avanti. Ed è per me un tuffo nel passato, all’infanzia felice, fatta di biscotti e racconti.
Il colore degli occhi non tradisce il logorio del tempo, anzi esalta una limpidezza dettata dal maturare degli anni. Come un vino buono tenuto a riposare che decanta nel fondo della botte tutto ciò che non aiuta ad apprezzarne le qualità.
Osservo le tue braccia robuste; l’intreccio dei muscoli contratti per il lavoro in cucina. La voce canticchiare un motivo sconosciuto, tuttavia familiare. L’armonia dei gesti; come fosse una danza e tu l’etoile magnifica..!
Ricordo da bambino che mi sembravi un angelo, perché la controluce diluiva la tua immagine creando un alone di calore e meraviglia. E sapevo che eri bella perché il mio sguardo poggiava sul tuo sorriso. Quello stesso che ancora oggi mi regala un attimo di intima felicità rassicurandomi …
Sfioro il dorso della tua mano ruvida; quante volte ho portato quella che prima era seta sulla mia guancia bagnata dalle lacrime. Adesso ne contemplo la storia, la fatica e sento gratitudine.
Il tempo accompagna le nostre vite ricordando ad entrambe di non voltarsi indietro; perché il passato urla per impaurire il presente. 

Insieme guardiamo avanti, sorretti dall’amore che vive in noi .. per sempre …!!

lunedì 26 aprile 2010

La solitudine non esiste

La solitudine non esiste! Sento intorno mille respiri e mille pensieri che s’intrecciano in gomitoli inestricabili: legano e catturano. Mille sguardi posano il velo della loro indifferente malinconia sulla mia pelle. Mille parole inutili pronunciate stancamente ma che riscaldano i pomeriggi bui. Così mi accorgo d’esser vivo, presente agli altri e soprattutto a me stesso. Così mi accorgo che la solitudine non esiste. Anche se fossi l’ultimo cuore che batte in un mondo isolato. Anche se fossi l’ultima goccia di un mare essiccato. Anche se fossi l’ultimo alito di vento in un’afa soffocante. Sarei io. E quindi presente a me; con quell’io che mi accompagna da sempre, che mai lascerà soli i giorni fintanto che la vita mi concederà un’alba e un tramonto, un sogno ed un risveglio, una sola morte ed una rinascita eterna. La solitudine non esiste. Me lo leggo negli occhi: nello sguardo curioso che scruta gli altri nell’intimo del quotidiano. Lo sento sui polpastrelli delle dita quando sfiorano una mano vicina anche se sconosciuta. Lo riconosco nel sonno di mia moglie quando riposa al mio fianco. La solitudine non esiste perché conosco Dio. Ed il suo amore mi circonda togliendo spazio alla noia, alla malinconia … alla solitudine!

venerdì 2 aprile 2010

Jesus

Quella sera fu l’ultima che trascorsi insieme ai miei amici.
Erano come fratelli; coloro a cui avrei affidato mia madre prima della dipartita. Li conoscevo uno ad uno e ne avevo cercato il cuore per farlo schiudere al calore della mia verità.
Raccontavo loro del Padre e della sua potenza. Tentavo di prepararli alla mia lontananza, a quando non saremmo più stati insieme.
E poi era giunto il tempo: i giorni avevano disegnato una traiettoria sino ad arrivare al momento del sacrificio, in croce.
Quella sera consumammo la cena con la stessa serenità di sempre, con allegria, sino a quando…
Sentii lo spirito del male attraversare le pareti della casa, roteare tra le teste dei miei fratelli in cerca della persona che avrebbe definitivamente scelto. Un alito gelido si spinse innanzi nel tentativo di sfiorarmi. Avevo già sentito quella tentazione; anche allora costretta a ritirarsi sconfitta. Così, vidi il male posarsi su Giuda… il mio Giuda.. Conosceva, come me, la sua debole volontà, la paura d’aver sbagliato tutto assecondando i miei progetti, la titubanza nella fede.
Satana seppe approfittare di un momento; quell’attimo in cui ciascuno si sente solo, abbandonato dal mondo. Quando le domande confondono la mente ed il cuore diventa insensibile nell’unico tentativo di difendersi.
Giuda non riuscì a sottrarsi dall’abbraccio maliardo, perfido, dell’eterno mio nemico. Il tentativo di resistere, dapprima risoluto, divenne sempre più flebile sino alla resa incondizionata.
Il male lo possedeva nell’ultima ora, dando inizio a ciò che era già stato scritto. Sapevo ciò che, da quel momento, sarebbe accaduto. Conoscevo la successione terribile degli eventi. Tutto necessario per liberare gli uomini dal peccato, per dar loro la possibilità di credere nell’amore di un Dio paterno, di un Dio che sacrifica quanto di più prezioso possiede.
Ero io, la preda, il sacrificio da immolare… io.
Nessuno può comprendere realmente ciò che sentivo. La condizione umana assunta era gradualmente divenuta esclusiva, totalizzante. Per un attimo, un insignificante, piccolissimo, irripetibile istante ho sperato che tutto si fermasse. Che come per Abramo si potesse rivedere il copione, modificandone l’epilogo. Che la morte dovesse ritornare sui propri passi senza aver raccolto frutto, con le mani inaridite e vuote per la mietitura mancata.
Quella notte, così buia. Nonostante fossi circondato dai mie amici mi sentivo assolutamente isolato. Distante da tutti: da coloro che mi bramavano per mortificare la mia vita, ma anche da coloro che mi amavano e che non seppero starmi vicino.
Le fronde degli ulivi gridavano un canto infausto ed il Getsemani si trasformava lentamente in un tribunale di sola condanna.
Il dolore cominciava a chiedere spazio tra la carne: irriverente conquistatore pretendeva il posto principale con l’obiettivo unico di offuscare la mente.
Vomitai al cielo un lamento “Padre allontana da me questo calice! ”(Mc 14, 36) “ ..Però non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22, 42).
Immediata la risposta. Un abbraccio caldo mi avvolse completamente sostenendo quell’eccesso di umanità che aveva preso piede in me. La mia volontà ne uscì fortificata. L’amore riprese a soffiare in tutto me stesso con quella determinazione di sempre. Dovevo andare avanti. Volevo donare tutto.
“Giuda, amico mio, affretta il tuo tradimento. Quello che devi fare fallo subito (Gv 13, 27).”
Cercavo conforto in coloro che mi avevano seguito. Dormivano. Mi sembrarono come bimbi ignari del destino del genitore che parte per la battaglia. Temevo per il loro futuro, per la loro fede. Volli svegliarli esortandoli alla preghiera “Alzatevi e pregate per non cadere in tentazione” (Lc 22, 46).
Anche loro prede. Anche loro, come me, destinate a vincere perché benedette dal Padre mio che custodiva i loro cuori con parsimonia.
Pietro mi aveva giurato fedeltà eterna: “Darei la mia vita per te” (Gv 14, 37). Adesso lo vedevo abbandonato al sonno, sopraffatto dalla stanchezza e sentivo la sua paura, quella che gli avrebbe fatto rinnegare il nostro passato insieme, dimenticare il progetto.
“Donna, non lo conosco!” (Lc 22, 57 ) avrebbe affermato mentre un gallo gli cantava il fallimento, ricordandogli chi era, confermandogli chi sono io.
“Padre mio, … si compia la tua volontà!” (Mt 26, 42).
Sapevo che Dio non mi avrebbe lasciato solo. “..io sono nel Padre e il Padre è in me..” (Gv 14, 10) avevo risposto a Filippo che mi chiedeva di mostrargli il Padre “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14, 9). Sentivo la sua mano come sempre lampada ai miei passi (Salmo 118, 105) e per questo non dovevo temere.
Quel filo di scoramento sul quale danzava la mia volontà mi riportava il ricordo delle tentazioni nel deserto. Anche allora Satana aveva provato ad insinuarsi nella fallibilità della mia natura umana. Aveva voluto misurare la resistenza di ciò che sapeva essere fragile in tutti gli altri. Conosceva bene le pieghe di un’anima indifesa. In me sottovalutava la mistura con la natura divina. Così non aveva voluto arrendersi, caparbio nel tentativo di aggiudicare un prezzo da corrispondere per la conquista ultima.
Dovette accontentarsi di ripiegare su chi mi stava accanto.
Giuda arrivò insieme ad altra gente determinato nell’affrontare il destino. Mi venne incontro fissandomi negli occhi. Nel suo bacio non trovai che vuoto, solitudine, tormento. Avrei voluto stringerlo per guarirne l’anima, così come per tanti altri era accaduto. Gridare a Satana di liberare il corpo, di perdere ancora una volta quella gara infinita. Giuda si scostò, così iniziò la storia che avrebbe detto al mondo che Dio ama gli uomini.
“Giuda…non ti ho forse amato abbastanza..?! Non ti ho forse cullato nel ventre di tua madre come con chiunque altro? Salvati..!! Fuggi. Scappa via dal rimorso che ti appenderà a quell’albero..”
Apparivano una serie di immagini in cui mi vedevo protagonista.
Adesso, le fronde degli ulivi si trasformavano nelle braccia di soldati aguzzini, vibranti fendenti carichi d’odio sul mio corpo indifeso. “Ecce Homo” avrebbe recitato una prima sentenza che tentava di scagionare da colpe inesistenti. La flagellazione rappresentava un’espiazione necessaria per salvarmi la vita.
Sentivo la pelle così sottile, coprire una carne maciullata dagli spuntoni delle mazze, dalle lame delle fruste. Ogni colpo produceva la scossa dei muscoli ed il dolore camminava velocissimo lungo quei piccolissimi nervi, ormai affioranti in superficie.
I miei occhi serrati in una smorfia di strazio; ancor più chiusi di quanto non fosse la bocca contratta nel tentativo di bloccare ogni sibilo.
La violenza di quegli uomini si scagliava sulla testa, sulle spalle, ovunque vi fosse una parte ancora non colorata dal rubino del sangue che a fiotti rimbalzava contro gli arnesi di quei macellai.
Quanto avrei potuto sopportare…?!
Le allucinazioni proseguivano nella proiezione del mio futuro.
Vedevo gli ulivi, intorno, trasformarsi da carnefici a vittime. Il fusto piegato sotto l’impatto dei colpi di vento che infieriva tagliente. Ogni ferita sul tronco distillava linfa che scivolava sino alle radici perdendosi tra le pieghe della corteccia. Così su me. Il sangue mi ricopriva interamente.
Caddi per l’ultimo colpo sferrato dal soldato alla mia sinistra. Un tonfo sordo. Nell’urto col suolo sentii le ossa cedere. Un dolore lancinante attraversò la schiena sino a raggiungere la base della testa proprio nel punto in cui il calcio del bastone aveva affondato la sua violenza.
Provai un male profondo, superiore a quello che può essere generato da una ferita o dallo strazio della carne.
La sofferenza nasceva dal tradimento, dall’abbandono. Sintetizzava tutta la negatività che il mondo era riuscito ad accumulare, da sempre. Quel male si riversava su di me, nello stesso istante in cui il mio corpo ferito testimoniava un bene supremo, nato dal sacrificio, immolato per la purificazione e la redenzione di tutti. Era questo contrasto a stridere enormemente, più dei miei denti serrati nel morso della sofferenza.
Ritornai in me ed il cuore sembrò placarsi. Anche gli ulivi rilassavano i loro rami e le fronde luccicanti per l’argento riflesso dalla luna. Le foglie quasi toccavano il cielo, distese nel tentativo improbabile di allontanamento dal suolo. Cercavano così di prendere distanza da quella stessa terra che stava preparando la scena per rinnegare il suo creatore.
Una lucciola di lanterna si fece spazio nel buio della notte ingrandendo lo sfavillio gradualmente. Si avvicinava a passo d’uomo e conduceva con sé uno scrosciare di armature e spade. Riconobbi quanto già visualizzato nella precedente premonizione e capii che tutto stava per cominciare.
Nel bagliore della lampada si materializzò la figura di Giuda mentre accorciava la distanza tra i nostri corpi. Dietro guardie pronte per la cattura.
“Chi cercate?” (Gv 18, 4) Sentii rispondere “Gesù il Nazareno”. In quel nome ravvisai il mio destino.
“Io sono”.
Giuda guadagnò spazio e avvicinatosi mi baciò sulla guancia. Era il segnale convenuto. Da lì in poi la storia avrebbe camminato lungo un sentiero parallelo.
Così, in quell’attimo, vidi il mio corpo inchiodato ad una croce ed il cielo tingersi del mio stesso sangue.
“Donna, ecco tuo figlio! (Gv 19, 26) … “Ecco tua madre!” (Gv 19, 27). Ascoltavo la mia voce mentre recitava un testamento spirituale, consegnando colei che mi aveva donato la carne. Completavo così un progetto perfettamente delineato.
Gridai. Gridai forte. Questa volta stentai a riconoscere la voce. Mi sembrò diversa. “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 24, 46). “Tutto è compiuto” (Gv 19, 30). La testa scivolò lungo il braccio completando il semicerchio verso il basso e l’ultimo fiato evaporò confondendosi tra le nuvole.
Con esso si perdeva la mia umanità donata a quegli uomini che mi avevano rinnegato e che io amavo da sempre.